
​REDENZIONE
​​
Barcollo. Appoggio un ginocchio sul tappeto per non cadere. La mia fronte piscia gocce di sudore vicino al piede. Le grida della folla arrivano ovattate, un brusio di fondo. Tra queste, una cattura la mia attenzione, riconosco il timbro, come una madre il vagito del figlio.
«Alzati Frank, mancano trenta secondi, non mollare adesso! Alzati e quando accorcia la distanza abbraccialo.» È Salvatore, il mio secondo, si è levato il cappello, la sua testa calva riflette le luci ad incandescenza che illuminano il ring.
L'arbitro è davanti a me, sta alzando un dito alla volta. «Sei…sette…otto.»
Poggio un guantone sul tappeto e mi tiro su. Sento le gambe molli. Tremano come i trampoli di un artista di strada alle prime armi. L'arbitro mi chiede se voglio continuare. Dico di sì. Sento il sapore sapido del sudore misto a quello ferroso del sangue. L'arbitro mi afferra i guantoni, controlla se ho ancora forza nelle braccia. Fa segno che l'incontro può riprendere. Il mio avversario mi si scaglia addosso come palla di piombo scaraventata da una fionda. Provo a schivare il suo diretto, mi prende di striscio, lacerandomi il sopracciglio. Mi avvicino e lo abbraccio. Devo resistere fino alla campana. I suoi muscoli si tendono e spingono come pistoni idraulici di una trivella.
La campana ferma la sua furia, respiro come se fossi stato in apnea fino a farmi scoppiare i polmoni.
Vado al mio angolo e mi abbandono sullo sgabello, appoggio il culo sul legno, l'unica cosa che vorrei è chiudere gli occhi e svegliarmi nel letto. C'è una parte di me che combatte contro quest'idea. Salvatore mi bagna la testa, i pensieri si schiariscono. Parla, ma alcune immagini tornano a galla con la forza di un terremoto. Ricordi ruvidi come cemento grezzo. Sono loro a darmi la forza.
Mi mancherai
Apro la porta di casa. «Ciao ma'.»
Poggio lo zainetto per terra.
«Ciao Franci.» È talmente sprofondata nel divano che sembra se la stia ingoiando, sulle gambe ha il portacenere, straripa di sigarette.
«Se vuoi mangiare ci sono gli avanzi di ieri sul tavolo, li devi scaldare.»
«Ok, vado a lavarmi le mani.» Giro la maniglia del bagno, ma la porta non si apre.
«Pa’, ci sei tu?» Silenzio. «Pa’!»
Vado in salotto. «C'è papà in bagno?»
«Sì, perché?»
«Non mi risponde.»
«Che palle!» Si alza a fatica dal divano come se le sue spalle dovessero reggere tutti i problemi del palazzo. Si avvia verso il bagno, la seguo.
«Marco esci! Tuo figlio deve lavarsi le mani.»
Alza la voce. «Oh, vuoi rispondere?» Niente.
Batte i pugni sulla porta.
Luci blu e rosse.
Il suono della sirena rompe la quiete del quartiere. Dal balcone vedo un'ambulanza e una macchina della polizia. Vado all'ingresso. Mia madre li aspetta in vestaglia, con la mano tiene la porta aperta, nell'altra la sigaretta. Un pezzo di cenere si stacca e cade sulle mattonelle sporche. Entrano due infermieri, dietro gli agenti. Mamma indica il bagno, il suono degli stivaletti rimbomba tra le pareti. Li vedo parlottare, poi si avvicinano in due, tirano un calcio e scardinando la porta. Mio padre è seduto sulla tazza, ha la faccia bluastra e un ago infilato nel braccio. Sento mamma urlare, versi senza senso che bruciano più di mille parole. Un infermiere prova a parlarle, lei scuote la testa. I capelli le vanno sul viso.
Fisso mio padre. Ha la bava alla bocca e gli occhi spalancati. Un agente mi mette una mano sulla spalla e mi allontana.
Non più un bambino
«Svegliati Francesco.» Sento una mano che mi scuote. Apro gli occhi e giro la testa dal lato opposto del divano, davanti a me mia madre. Dietro di lei due ragazzi in jeans e t-shirt mi guardano con la stessa espressione con cui si guarda un uovo spiaccicato a terra. «Devi andare con loro Francesco, preparati la valigia.»
«Mamma perché? Io non…»
«Niente domande. Devi andare e basta.»
Mi portano in una casa grande. Ci sono altri ragazzi, sento i loro occhi su di me. Dormiamo in quattro in una stanza che puzza di sudore e detersivo per pavimenti. Le persone che mi hanno portato qui dicono che mia madre verrà a trovarmi.
«Io voglio solo andare a casa.»
«Non è possibile.»
«Perché? Ho fatto qualcosa di male?»
«No, non è colpa tua. Devi solo avere pazienza.»
Ogni volta che finiamo una discussione mi mettono una mano sulla testa e mi scompigliano i capelli, è una cosa che odio. Credono che non capisca, non sono più un bambino, perché non dicono la verità?
Gli altri ragazzini sono diversi da me, non riesco a parlare con loro. Ogni volta che provo a dire qualcosa si girano dall’altra parte. Mi prendono in giro perché sono il più magro e perché la sera piango, mi metto il cuscino sopra la testa ma loro lo sentono lo stesso. Mi sento osservato, mi manca casa, papà, mamma perché hai permesso tutto questo?
Spesso mi circondano in tre o quattro, si tirano fuori il pisello e mi costringono a toccarglielo, non voglio farlo e loro mi spingono e mi danno schiaffi dietro la testa finché non lo faccio. Se alzo la voce mi tappano bocca e naso, finché non divento rosso.
Mi dicono che non sono nessuno, che non valgo niente. C’è qualcosa di sbagliato in me? È colpa mia?
Ho parlato con gli adulti, gli ho raccontato tutto, per filo e per segno, nei dettagli più imbarazzanti. È stato come levarmi lo zaino pieno di libri dopo una camminata di tanti chilometri.
Per qualche giorno sono rimasto in stanza da solo. Ma dopo qualche giorno li hanno fatti rientrare nella stanza.
«Infame, te la faremo pagare.» Cosa vuol dire infame?
Finalmente vedo mia madre. Ha i capelli in disordine e dei grossi occhiali neri appoggiati sul naso. Indossa una maglietta a maniche lunghe, anche se si muore di caldo.
«Quando mi riporti a casa mamma?»
«Papà pagava l'affitto, io non posso mantenerti.» È veramente lei? Non la riconosco, mi sembra di parlare con un’estranea. Si gratta le braccia con forza.
«Mamma io sto male, i ragazzi sono cattivi qui. Mi fanno del male.»
«Lo hai detto a loro?» Indica uno degli adulti.
«Si, ma non hanno fanno niente. Io voglio tornare a casa.»
«Non sei più un bambino, sei debole, lo sei sempre stato.»
«Perché mi parli cosi?» Non risponde, infila la mano dentro la borsa, cerca qualcosa, ma non la trova. Il braccio si muove sempre più veloce, come un pesce arenato sulla battigia. Si ferma di botto, le sue dita, come artigli di un’aquila stringono un pacchetto di sigarette, se ne mette una in bocca.
«Signora qui non si può fumare.»
«Solo due tiri.»
«No.»
Rimette dentro il pacchetto. Abbassa la testa e si gratta le gambe, sembra che si voglia staccare la pelle.
Non capisco. Perché si comporta così? Sento gli occhi inumidirsi. Mi metto le mani sulla faccia per coprire le lacrime. Singhiozzo, non riesco a fermarmi. Sento una mano toccarmi la spalla, è lei? Apro gli occhi. Davanti a me c'è una sedia vuota, accanto a me uno dei responsabili.
Riscatto
«Fuori i secondi.»
Avanzo verso il mio avversario, mantenendo la distanza con il jab. Le scarpette affondano leggermente nel tappeto del ring. Lui tira una serie di colpi, una combinazione veloce. Ha ancora energie da vendere o almeno è quello che mi vuole far credere.
Mio padre ha la faccia bluastra, labbra viola, contrastano con la schiuma bianca che gli esce ai lati dalla bocca.
Avanzo e faccio partire un diretto, poi ancora un altro, lui indietreggia, scarta a sinistra e prova a colpirmi Quando mi fermo lui riparte come una molla. Mi abbasso, schivo il diretto. Sferro un diretto al volto, faccio una finta e poi ancora diretto al corpo e gancio. Lui schiva il primo, ma gli altri due vanno a segno.
Il pubblico è dalla sua parte: «Buttalo giù, non vale niente! Fagli vedere chi sei!»
Mi faccio scivolare le grida come pioggia su un'incerata.
Prova a chiudermi all'angolo, mi abbasso ed esco a sinistra.
I ragazzini mi spingono la mano verso il loro uccello. Mi chiamano femmina, dicono che non sono nessuno.
Accorcio la distanza, sento il suo fiato, è in affanno. Esplodo due ganci sul viso e due al corpo, sputo fuori la rabbia con quattro secchi suoni gutturali. Combatto contro di me, non contro di lui. Contro il ragazzino che ero, ogni colpo mi ricorda che avrei potuto reagire. Mi ricorda che esistono persone che vogliono mettere sotto gli altri. Che lo fanno per sentirsi qualcuno. Che essere gentili e buoni non significa essere deboli. Ogni colpo che prendo mi rende più forte, perché so che ora posso rispondere.
Si china leggermente in avanti. Lo colpisco con un montate e un gancio. Il suo paradenti vola, dalla sua bocca esce un fiotto di saliva. Si accascia a terra e l'arbitro comincia a contare.
«Sette…Otto…Nove…D» Prima che il conteggio finisca corro al mio angolo. Salgo sulle corde, braccia tese verso il cielo. Salvatore mi abbraccia. È diventato un padre o almeno lui si comporta da tale, anche se io non ne ho più bisogno. Sento la faccia pulsare di vita propria, domani farà male, ma il dolore passerà, non c’è cura migliore del tempo.